Artiste e artisti

ILARIA MARGUTTI: L’ARTE COME PRATICA DI ASCOLTO, RESISTENZA E CONSAPEVOLEZZA

| di Barbara Pavan |

Varcare la soglia di uno studio d’artista è sempre un atto carico di attesa, come l’inizio di un rito silenzioso. Ogni volta mi chiedo quanto dello spirito, dell’anima che si manifesta nelle opere, abiti anche lo spazio in cui esse prendono forma.

Figlie dell’infinito – 130×240 – 2025

Nel caso di Ilaria Margutti, questa domanda si fa ancora più intensa. La sua ricerca, infatti, si muove all’interno di geografie interiori con la stessa intensità con cui indaga l’immensità complessa dell’Universo. Tra le sue mani l’infinitamente grande si traduce in un alfabeto di punti nel perimetro minimo di un telaio da ricamo attraversato da un ago e da un unico filo.

Figlie dell’infinito – 130×240 – 2025
Figlie dell’infinito – 130×240 – 2025
Figlie dell’infinito – 130×240 – 2025

È in questo cortocircuito tra vastità e essenzialità che si situano i suoi due Studi: luoghi distinti ma interconnessi, uno dedicato al gesto generativo — certosino, paziente, puntuale — e l’altro alla sospensione, al tempo dell’attesa e della visione, uno spazio che diventa soglia, territorio liminale in cui l’opera si offre, l’artista si racconta, lo sguardo dell’osservatore si fa parte del processo. Qualche settimana con lei siamo partite dal primo studio, avviando una lunga conversazione che ci ha condotte da un lavoro all’altro, seguendo il filo invisibile dei progetti nati da un procedere lento, meditativo, fatto di gesti ripetuti come un mantra, quasi come una preghiera. Ne è emerso un percorso fatto non solo di opere, ma di pensieri, intuizioni, riflessioni che affiorano a volte solo alla fine, come il senso pieno di un cammino.

Figlie dell’infinito – dettaglio 130×240 – 2025

Da questa studio visit è nata l’intervista che segue in cui abbiamo provato a fare il punto sul suo percorso di ricerca e di pratica artistica.

Artista e docente di storia dell’arte, dopo il diploma all’Accademia di Belle Arti di Firenze, Margutti ha intrapreso un percorso artistico intenso e multiforme, esponendo in Italia e all’estero, collaborando con gallerie private, e dedicandosi attivamente alla promozione dell’arte contemporanea, anche attraverso iniziative come “Incontri al Museo con l’Arte Contemporanea” e il grande progetto di “CASERMARCHEOLOGICA” con la trasformazione –  in collaborazione con Laura Caruso – di Palazzo Muglioni, un’ex caserma, in hub culturale internazionale.

ARCIPELAGHI dittico, 130×160, 2024

La sua ricerca artistica ha subito una svolta decisiva nel 2007, quando l’incontro con Rosalba Pepi, maestra di ricamo, le ha aperto una nuova dimensione espressiva. Da quel momento, la pratica del ricamo si è intrecciata profondamente con la sua poetica, diventando medium e metafora, gesto rituale e strumento narrativo.

arterie smisurate, 140x 200 cm, 2020

Margutti concepisce la sua ricerca come un’indagine costante, una tessitura tra tempo, ritmo e silenzio. Il gesto del ricamare diventa un atto di ascolto, di riconciliazione, un processo che scava nell’invisibile e lo rende visibile con discrezione, con pazienza. La sua cifra stilistica nasce dalla volontà di destrutturare i punti tradizionali, rifondandoli in una lingua nuova, intima e densa di significato.

arterie smisurate, 140x 200 cm, 2020

Attraverso il filo, l’artista costruisce una pratica che non dà risposte ma apre direzioni, sospese tra storia e mito, tra ferita e guarigione, in un dialogo silenzioso e potente con la materia e con il tempo.

Nei suoi lavori, non cerca di imporre un messaggio univoco. Piuttosto, lascia che lo spettatore entri nel territorio dell’opera secondo la propria esperienza, se disposto a esercitare uno sguardo allenato al silenzio e alla profondità. Margutti si interroga sul ruolo dell’artista in una società frammentata e rumorosa, e invita a riappropriarsi della capacità di ascoltare, di vedere davvero, al di là della superficie.

Codici indicibili 80×80- 2025 ph.credit Elisa Nocentini

Con la serie “Il filo dell’Imperfetto”, realizzata oltre un decennio fa, ha avviato un lavoro sul trauma e sulla cura. In quelle opere, le cicatrici diventano merletti: ferite altrui rammendate con rispetto e dedizione, fino a trasformarsi in simboli di bellezza resiliente. È in questo processo che l’artista ha sentito la propria trasformazione: attraversata dal dolore degli altri, lo ha trascritto con ago e filo, senza cedere al pathos, ma sostenendone il peso con consapevole distacco.

Codici indicibili 80×80-2025 ph.credit Elisa Nocentini
Codici indicibili – dett 80×80-2025 ph.credit Elisa Nocentini

Oggi la sua ricerca si muove verso territori più sottili, dove l’invisibile acquista sempre più spazio. Margutti esplora il retro della tela, la scrittura, il gesto performativo, mentre il colore si fa sempre più assente, lasciando emergere l’essenziale. L’opera, per lei, resta sempre un processo di attraversamento — non una conclusione, ma un atto di presenza, fragile e luminoso, nell’ombra del tempo.

Ecco cosa ci ha raccontato…

Chi è l’artista Ilaria Margutti?

La “Ilaria” artista la sento come una presenza che mi abita, che cerca di tenermi vigile sulle cose del mondo in evoluzione e sulla vita, nella sua potente dimensione creativa e tragica insieme. È come sentirsi sorvegliate da un’ossessione interiore necessaria, per resistere al buio di questo momento storico e non solo.

Nel ricamare le mie tele, cerco di restituire a me stessa (e a chi la riconosce in sé) una mancanza originaria, che sento colmarsi solo quando ricamo, riconoscendomi in quel filo che sa tessere relazioni, storie, saperi, ferite e galassie. Non so definirmi in una sola identità: sono artista, insegnante, ascoltatrice del silenzio e del non visibile. Mi sento così intrecciata all’indeterminatezza, che solo quando ho ago e filo in mano riesco a percepire una qualsivoglia misura di me stessa.

Laniakea, dettaglio-240×275-2024-25

Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, ho attraversato la pittura fino a scivolare nel ricamo, come forma del pensiero. Da allora, ago e filo sono diventati il mio modo di interrogare il mondo. Mi sento un nodo temporaneo di una rete più grande, una delle tante corrispondenze che intessono la vita. Per questo il mio lavoro nasce dal desiderio di ricostituire i fili di ciò che si è smagliato, nel simbolico, nel tempo, nei corpi, nella memoria. L’arte per me, è un atto di attenzione e responsabilità. L’opportunità che l’essere umano ha, per aprirsi verso le infinite domande che ci strutturano e ci richiamano.

Ago e filo: oggi quanto rappresentano per te strumenti di pratica artistica e quanto di una rivoluzione del pensiero? Quanto, in questo senso, si intrecciano con la tua filosofia di vita e con una dimensione “politica” del fare arte?

Ago e filo non possono più essere considerati solo come strumenti, sono presenze vive, vie di accesso a una forma di pensiero che non separa il corpo dalla mente o il gesto dall’idea. Per me sono strumenti di ascolto e trasformazione, necessari come tramite, per entrare in quello stato del pensiero che si riappropria della sua complessità e della profondità, come aperture verso la vastità. Ogni opera nasce da un tempo lungo e dilatato, non lineare, che accoglie l’attesa come fondamento necessario per generare senso. Nel gesto del ricamo avviene una rivoluzione silenziosa, fuori dalle scene rumorose dei protagonismi che caratterizzano questa epoca. Ricamare per me, significa scavare nel simbolico, nella materia, nelle ferite del pensiero occidentale.

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Da qualche mese ho scoperto e approfondito la ricerca di Karen Barad, fisica e filosofa americana, che ha elaborato una teoria radicale delle relazioni a partire dalla fine degli anni ’90. Secondo Barad, non esistono entità separate, ma solo relazioni che generano realtà. Ogni fenomeno è una intra-azione tra ciò che esiste e ciò che lo interroga, è una visione in cui materia e significato sono intrecciati e ogni gesto diventa un atto etico e politico.

In questo senso, l’arte, come la scienza è sempre politica. Perché tutto ciò che riguarda le relazioni, con l’altro, con il mondo, con la Natura, è un atto politico. Ogni gesto che compiamo risuona, trasforma, modifica il campo nel quale agiamo. Per questo sento la necessità di interrogare il significato del mio lavoro con responsabilità. Non cerco un’arte che si impone, ma un’arte che si evolve nel tempo, nella materia e nel pensiero.

Laniakea, dettaglio-240×275-2024-25
Laniakea, dettaglio-240×275-2024-25

Cito anche Luce Irigaray, che ultimamente ho ripreso a leggere, perché ha indicato una via per restituire un valore ai linguaggi negati, quelli che non si impongono, ma accolgono facendosi luogo. Il femminile è stato espulso dalle forme canoniche del sapere; eppure, attraverso il gesto, il respiro, la ripetizione mai uguale a sé stessa, può tornare a dirsi per ricreare un paesaggio dell’ascolto di un ritmo dimenticato, ormai lontano.
Il ricamo, con la sua lentezza e precisione, si contrappone alla frenesia produttiva del presente. È disallineato e proprio per questo, spesso è rimasto inascoltato, considerato parte di una tradizione antica e superata. Eppure, nella sua apparente marginalità, non rappresenta ma fa riemergere, ci ricorda di non essere mai stato un gesto decorativo, ma il rifugio di un’azione femminile a lungo trascurata, capace di custodire una forza dirompente, la possibilità di riscrivere il mondo da un’altra prospettiva, di tessere una narrazione in cui il sapere non è potere, ma relazione.

Laniakea composizione 240×275-2024-25

Dalla dimensione umana a quella universale, passando per astronomia e fisica: come è evoluta nel tempo la tua ricerca artistica? Quali trasformazioni ha attraversato sul piano concettuale, tecnico e metodologico?

La mia ricerca artistica è nata da una necessità profondamente umana e personale, ricucire ferite, interrogare la perdita, dare forma visibile a ciò che rimane invisibile nei legami, nei ricordi, nella memoria, e nelle forme della Natura. All’inizio, il corpo era il mio centro ferito, attraversato da fili che cercavano senso dentro il silenzio. Ma col tempo, quel corpo è come guarito, si è dilatato, ha smesso di essere solo mio, per farsi soglia verso l’altro e poi ancora oltre, fino a diventare un corpo cosmico, parte di un sistema più vasto che continua ad interrogarsi.

Il passaggio dall’intimo all’universale non è stato un salto, ma un’evoluzione lenta e necessaria.
La ferita è diventata una soglia, le mani strumenti di osservazione, come se il filo potesse farsi sonda, sguardo che indaga. L’astronomia e la fisica sono entrate nella mia pratica non come temi da rappresentare, ma come forme di pensiero che interrogano lo stesso vuoto che abita anche le mie tele.

Variabili del cigno 2021-24

È stato grazie all’incontro delle teorie e scoperte di scienziate come Henrietta Leavitt, Grete Hermann e Karen Barad che ho iniziato a percepire una corrispondenza profonda tra il gesto del ricamo e la ricerca scientifica sui temi della fisica e dell’astrofisica. Sono entrambe pratiche di pazienza, di misura, di relazioni, capaci di toccare l’infinito restando immobili. Così anche il mio percorso è cambiato. Da segno autobiografico, è diventato strumento di una cartografia invisibile. I fili hanno cominciato a tracciare coordinate, costellazioni e il retro delle tele è diventato parte del processo, uno spazio generativo, come una mappa quantistica o un tessuto di gravità nascosta.

Variabili del cigno dett 2021-24 ph.credit Federica Narducci
Variabili del cigno dett 2021-24 ph.credit Federica Narducci
Variabili del cigno dett. 2021-24 ph.cr.Federica Narducci

Concettualmente, oggi mi muovo su un confine molto poroso: tra arte e scienza, tra simbolico e reale, tra visibile e invisibile, metodo e materia sono cambiati con me. Oggi cerco di evocare, di lasciar emergere le forme e le parole che sento essere urgenti in questo momento. L’arte per me, è un luogo di ricerca, fatto di domande a cui non è possibile dare una sola risposta, dove il tempo si dilata e il sapere si fa relazione.
Perché un punto ricamato non è mai solo un punto, è un atto di interconnessione, una presenza che vibra tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare, è un nodo di corrispondenze.

Variabili del cigno 2021-24 ph.credit Elisa Nocentini

Il ricamo è storicamente una pratica legata all’universo femminile. Quanto e come questa dimensione di genere entra a far parte delle tue opere?

Il ricamo è una lingua antica, da sempre associata al femminile. È fatto di gesti silenziosi, di attese, di ripetizioni che non gridano, ma persistono. Per secoli è stato relegato all’ombra dell’arte, confinato nel “fare domestico” e proprio lì, in quel margine, è cresciuto come una forza carsica. Ricamare è il mio modo per tornare a quel sapere negato, ma anche per trasfigurarlo, renderlo atto di pensiero e liberarlo dal mestiere.

Variabili del cigno, dett2021-24 ph.credit Federica Narducci
Variabili del cigno, dett 2021-24 ph.credit Federica Narducci

La dimensione di genere entra nel mio lavoro come ferita e possibilità, raccoglie le storie di ciò che è stato escluso dai linguaggi dominanti – il corpo femminile, il tempo ciclico, la cura, il non detto – e si apre come spazio di libertà.

In quella marginalità può nascere un altro modo di conoscere, di essere, di agire.

Luce Irigaray scrive che il femminile è stato esiliato dal linguaggio filosofico, modellato da sempre in forma maschile, lineare e assertiva, ma il ricamo non segue una linea retta. Si muove per nodi, ritorni, deviazioni, è un pensiero incarnato che non pretende di spiegare, ma di restare. Esplora la vita e la Natura senza possederla, incontrandola con la punta delle dita.

Ogni mia opera è un tentativo di restituire dignità a questo linguaggio del corpo e del tempo, del silenzio e della presenza. Il genere, nel mio lavoro, non è una dichiarazione ma una vibrazione. Non metto in scena il femminile, lo interrogo e lo lascio emergere. Le figure che ricamo – spesso autoritratti o volti di donne amiche – sono presenze fluttuanti. Appaiono per poi scomparire. Dee senza nome, figlie dell’infinito, testimoni di una storia interrotta dalla scrittura.

Variabili del cigno, dett 2021-24 ph.credit Federica Narducci

Ricamare è il mio modo di riprendere a scriverla.

Negli anni ti sei misurata con progetti di arte relazionale e partecipata attraverso l’uso del ricamo. Quali riflessioni hai maturato su questa forma del fare arte? C’è un progetto, in particolare, che ti ha lasciato un segno indelebile?

L’arte relazionale, per me, è un’estensione naturale del mio gesto. Se il ricamo è un atto di connessione, aprirlo ad altri corpi, ad altre mani, ad altre storie è stato un passaggio necessario. Quando il filo passa di mano in mano, accade qualcosa che nessuna opera solitaria può generare, si costruisce insieme un sapere condiviso, si apre uno spazio di ascolto e di reciprocità, dove l’arte non è più solo espressione, ma relazione viva. In questi anni ho capito che il ricamo, come pratica partecipata crea un contesto, un tempo lento in cui si può parlare, tacere, ricordare, e ogni punto diventa una testimonianza. L’arte, in questo senso, non è mai solo il risultato, ma il processo stesso dello stare insieme, il confrontarsi, il ricucire anche simbolicamente le fratture della nostra società.

Un riferimento profondo per me è Maria Lai, maestra invisibile e luminosa che ha saputo mostrarci come l’arte può essere un filo teso tra le persone, la leggerezza come una forma di sapienza e che ogni gesto può essere un atto di trasformazione

Un progetto nato da una visione condivisa è proprio CasermArcheologica, uno spazio pubblico abbandonato e dismesso che, insieme ai miei studenti e a Laura Caruso, cofondatrice e oggi project manager, abbiamo restituito alla città trasformandolo in un laboratorio di pensiero e creazione. È lì che ho intuito per la prima volta la forza generativa del processo collettivo, la possibilità di rendere visibile i desideri e i bisogni di una comunità attraverso il fare Arte. Le tele di comunità nascono proprio dentro il processo di trasformazione di CassermArcheologica. Questesono grandi tele dove ogni partecipante ricama il proprio percorso emotivo e simbolico.

Tela di comunità 2022-2025 ph.credit Elisa Nocentini

Le realizzo in luoghi e contesti diversi, ogni volta che vengo invitata per una residenza o un laboratorio. Sono sempre diverse, perché si adattano alle persone che le creano, sono le loro storie, i territori, i simboli che portano alla luce desideri e potenzialità. Ogni volta che un gruppo ricama insieme, nasce una sorta di tessitura corale in quanto ogni filo porta traccia di un percorso, un ricordo, un desiderio. In questa coralità avverto una forza politica fortissima, profonda, una forma di resistenza. Un altro modo di stare nel mondo.
L’arte partecipata mi ha insegnato che ciò che resta non è solo l’opera, ma il legame, la relazione è la vera opera. Il ricamo diventa un pretesto per tessere domande, fiducia, responsabilità e allaccia legami, apre spazi e restituisce senso.

Come si intreccia l’arte con la tua vita quotidiana? Quanto è per te un elemento essenziale e imprescindibile?

Per me non c’è separazione tra arte e vita.

Sono lo stesso respiro, lo stesso modo di stare nel mondo, di osservarlo, di ascoltarlo. Credo che la vita sia l’opportunità che abbiamo per riconoscerci nella risonanza con il mondo, per ristabilire il nostro ritmo con l’universo, indagarlo, porgli domande nell’interferenza dello spazio ignoto in espansione, perché è lì che possiamo iniziare a risanare la ferita provocata dalla vita stessa*.

Quando cammino, ascolto, insegno, vivo sempre nell’arte.

È lo sguardo che mi abita e non posso spegnere, perchè le opere nascono sempre dalla mia esperienza, non per rappresentarla, ma per trasformarla, per questo cerco dentro ai segni dell’esistenza, nelle risonanze e nelle domande sospese.

Ricamare per me, è più di un gesto simbolico o catartico. È una forza che si rigenera nella ripetizione, quasi come una preghiera in attesa di essere ascoltata. Le mappe, le figure, le forme che emergono dai miei lavori non sono altro che le tracce tangibili delle mie domande che nascono da un’esistenza intrecciata al pensiero, al corpo, al tempo che si espande, senza fine, ma in continua trasformazione.

Tela di comunità 2022-2025 ph.credit Elisa Nocentini

Anche la scuola fa parte di questo ordito. Insegnando in un liceo scientifico, spesso mi trovo di fronte a ragazze e ragazzi che non sanno di avere un potenziale creativo, emotivo, ma lo scoprono crescendo, a volte lo accettano, altre lo rifuggono per paura di essere giudicati. Osservo come cambiano, da un anno all’altro, da una generazione all’altra. Imparo molto da loro. Per questo può accadere che diventino parte delle mie opere coinvolgendoli nei miei processi artistici.

L’Arte per me è un elemento imprescindibile, è la forma del mio pensiero, il modo che ho per comprendere il reale. È l’unico linguaggio che conosco per interrogare l’invisibile, per non soccombere alla frenesia, per restare vigile e sensibile anche quando il mondo si fa opaco. Non riesco a immaginare la mia vita diversamente, perché significherebbe attraversarla senza possibilità di trasformazione e quando ricamo, lo faccio con l’urgenza di restituire il corpo, la presenza e la memoria ad un filo interrotto.

*Questa ferita non è un errore da correggere, ma la condizione originaria del nostro esistere: la separazione, il non sapere, l’essere parte di un tutto che ci sfugge. Risanarla non significa eliminarla, ma riconoscerla, attraversarla, ascoltarla. È proprio in quel vuoto, tra ciò che siamo e ciò che non comprendiamo, che possiamo aprire uno spazio di cura, dove l’arte, la domanda, il pensiero, diventano gesti aperti, che trasformano.

Il ricamo è una tecnica che richiede precisione e pazienza: che cos’è per te il tempo? E vi è una componente catartica, quasi sacra, nella ripetitività certosina del gesto?

La questione del Tempo è complessa perché mi viene sempre da intraprenderla nel modo in cui lo vivo nella dimensione del ricamo e il modo in cui lo esploro nelle varie interpretazioni della meccanica quantistica e della astronomia. Sicuramente non è possibile definirlo come fosse una linea retta, ma lo percepisco come una sostanza densa, che si dilata e si approfondisce mentre lavoro. Quando ricamo, entro in una dimensione altra, il tempo non scorre, si fa spazio. Si fa ascolto. È come se ogni punto aprisse una fenditura, un varco, in cui qualcosa accade, che sia solo un pensiero, un ricordo, un’intuizione, un nuovo viaggio.

C’è una componente catartica, sì, ma non è una liberazione, è un attraversamento. La ripetizione del gesto non serve a distaccarsi, ma a rimanere dentro, a rammendare ciò che nella vita si è strappato o consumato. È un gesto che mi mette in ascolto, che mi àncora e mi elèva nello stesso tempo. Credo che ci sia qualcosa di sacro nella precisione lenta del ricamo, come presenza totale, in uno stato di attenzione assoluta, in cui mente e corpo coincidono. Ricamare non è mai automatico perché ogni punto è una decisione, una responsabilità, un legame che si rinnova, è un dialogo mentale continuo tra la mia mano, il filo e il vuoto.

Tela di comunità 2022-2025

È lì che il tempo si rivela come materia viva, come elemento attivo del processo, come dicevo prima, ogni opera richiede un tempo lungo, fatto di attese e ritorni e non posso accelerare. Devo essere presente in questa lentezza, perché sento che accade qualcosa che sfugge alla logica dell’efficienza, qualcosa che somiglia alla conoscenza, ma anche alla preghiera.

Un tempo non misurato e neppure misurabile.

Negli ultimi anni hai realizzato due cicli di opere di grande respiro, monumentali sia per la complessità della ricerca concettuale sia per la precisione tecnica. Potresti raccontarmi questi due progetti: come sono nati, come si sono sviluppati e quali significati portano con sé?

Ultimamente la mia ricerca si è rivolta a temi più scientifici, al cosmo, al pensiero che interroga le origini e l’invisibile. Questo passaggio ha generato due cicli fondamentali: Le Variabili del Cigno e Laniakea. Entrambi affondano le radici in un desiderio di trasformare il ricamo in uno strumento di indagine cosmologica e relazionale.

Il ciclo Le Variabili del Cigno è nato dallo studio affrontato da Henrietta Swan Leavitt, astronoma e matematica americana che, osservando le lastre fotografiche delle stelle variabili cefeidi, ha scoperto la legge che ha reso possibile misurare le distanze tra i corpi celesti. Una donna invisibile al suo tempo, ma che ha permesso di vedere più lontano, rendendo l’universo tridimensionale. Ho sentito una forte corrispondenza tra il suo lavoro e il mio, entrambe immerse in un gesto ripetitivo, metodico, ferme nel corpo, ma in viaggio nella scoperta. In queste mie opere ho ricamato le coordinate delle stelle che studiava, componendo galassie visibili sul diritto della tela e lasciando emergere, sul retro, la rete invisibile dei fili, cercando di creare una metafora della materia oscura, ma anche delle connessioni di ciò che non possiamo percepire con i sensi.
Successivamente è nata Laniakea, una composizione di 25 pezzi tutti ricamati a mano su doppio strato di tessuto, che si ispira alla mappa dei superammassi galattici, una struttura cosmica complessa e affascinante che, in lingua hawaiana, significa “immenso cielo”. In questa serie, ho lasciato che la materia del filo evocasse un universo invisibile ma presente, come un territorio da esplorare. Laniakea è l’idea di un cosmo rovesciato in cui si svela la sua reale struttura interconnessa.

Questi due progetti hanno poi aperto la strada a un ciclo più ampio, ancora in evoluzione: Figlie dell’Infinito. In questa serie, la figura femminile torna ad emergere in uno stato di sospensione. È una presenza che abita il margine, che rivendica la relazione tra gli elementi della Natura e resiste alla scomparsa. Le opere partono dalle mie ultime letture (Maria Gimbutas, Karen Barad, Luce Irigaray) ma sono state ispirate soprattutto dalla ricerca di una scienziata dimenticata, Grete Hermann, che per prima ipotizzò una fisica quantistica relazionale. Tutta la mia riflessione sul tempo, sulla responsabilità, sulla possibilità di ricucire il mondo attraverso gesti che non dominano, ma r-esistono, è accompagnata dall’eredità silenziosa di donne pioniere di teorie inascoltate, che hanno contribuito ad aprire un varco nel dibattito scientifico e filosofico dominato da una visione lineare e univoca del sapere.

In questo momento sto lavorando proprio sul mito di Antigone di Sofocle, riprendendo l’interpretazione filosofica che ne ha dato Luce Irigaray nel suo libro All’inizio, Lei era.

Tela di comunità

Sto ricamando un dialogo immaginario tra me e Antigone, per interrogarla e riportare alla luce un gesto che sposta il modo in cui percepiamo il femminile, non più come focolare domestico, ma come forza di resistenza e trasformazione, capace di generare un altro ordine simbolico. In questo processo creativo, sto coinvolgendo alcune mie studentesse.

In tutti questi cicli, il ricamo si è fatto mappa, misura, strumento di conoscenza. Ma anche atto di memoria e di risonanza, per provare ad abitare poeticamente il cosmo, senza cancellare le ferite della terra.

Tecnologia, iperconnessione, intelligenza artificiale: come immagini che si trasformerà il destino dell’arte nei prossimi anni e come influiscono i rapidi cambiamenti in atto sulla tua pratica e ricerca artistica?

È una domanda impegnativa, ma proverò a rispondere, consapevole che già tra “due settimane” potrei desiderare di dire altro, viste le dinamiche del momento… tutto può accadere. Viviamo in un tempo accelerato, in cui ogni cosa è un varco che sembra accessibile, duplicabile, infinitamente condivisibile. Eppure, mai come ora, sento il bisogno di rimanere nella lentezza del gesto, di stare nel corpo e nella materia. Non per nostalgia, ma per scelta.

La tecnologia ci offre possibilità immense, ma rischia anche di renderci spettatori passivi, consumatori di esperienze più che creatori di significati. L’arte, in questo scenario, è già diventata intrattenimento. Ma credo sia ancora possibile generare uno spazio che sappia interrogarci, dove il tempo non sia solo produttività, ma un luogo in cui sostare per dare forma al senso.

Per questo sento che il mio lavoro ha valore solo se custodisce una forma di resistenza nella lentezza e nella densità. Non si tratta di negare la tecnologia, ma di proporre un’altra postura, un dialogo che nasce da un ascolto attivo della trasformazione in atto.

L’intelligenza artificiale mi interroga profondamente. Da una parte può essere un amplificatore di possibilità, uno specchio in cui riflettersi, un modo per allargare il campo del pensiero, dall’altra, porta con sé il rischio di una disincarnazione, una perdita del limite, dell’errore, dell’imperfezione, tutti principi che fanno parte del significato profondo della vita.

Come ogni cosa costruita dall’essere umano, il pericolo non risiede nell’uso, ma nell’abuso inconsapevole degli strumenti. Il rischio è di spegnere il pensiero complesso e creativo, delegare ciò che percepiamo come limite, atrofizzando l’elasticità intellettiva, sia razionale che immaginativa.

Il ritmo della nostra natura non coincide con i quelli vertiginosi dell’evoluzione tecnologica, per questo subiamo l’affanno dell’iperconnessione, che ci distrae e ci impigrisce.

Forse e spero, che l’arte del futuro possa essere in grado di tenerci vigili dentro la vibrazione della tensione che nasce dal superamento dei propri limiti, accogliendo l’imperfezione come un potenziale evolutivo.
Ma in realtà non so dove stiamo andando, so solo che ho ancora bisogno di interrogare il mondo e la vita con ago e filo, nella lentezza di un tempo necessario per coltivare la consapevolezza.