
SERENA GAMBA
| di Barbara Pavan |
La pratica di Serena Gamba (Moncalieri 1982) si inscrive in una riflessione profonda sulla pittura come luogo di tensione tra permanenza e cancellazione, tra memoria iconica e oblio semantico. La sua opera si sviluppa a partire da un processo di svuotamento e ri-significazione delle immagini della Storia dell’Arte, in cui ogni riferimento viene privato della propria funzione originaria per far affiorare una grammatica essenziale, depurata da sovrastrutture e retoriche codificate. Gamba lavora con la parola, il segno, la forma – non come elementi espressivi, ma come unità archetipiche da smontare e ricomporre.

Pittura, disegno, linguaggio verbale confluiscono in un sistema ibrido che assume la forma di un alfabeto visivo in continua mutazione: un lessico di frammenti, geometrie, vuoti strutturali e condensazioni simboliche che non impongono lettura, ma la dislocano. In questo campo di forze, l’immagine non è mai finale ma processuale, non rappresenta ma indica, evoca, lascia spazio.


Le sue opere sono state presentate in contesti istituzionali e indipendenti, spesso in dialogo con figure storiche o affini per affinità di linguaggio e tensione concettuale. Tra i progetti più significativi le mostre Non appartengo alla terra presso Casa Gramsci a Torino, Dialogo sulle parole con Alighiero Boetti alla Galleria Umberto Benappi, e Dialogo 1 con Mirella Bentivoglio alla NP Gallery/Martelli fineart di Milano. Ha inoltre partecipato a rassegne come Residenze d’artista presso la Scuola Rossetti Valentini in Val Vigezzo, Pittura Italiana #1 a The Corner (Andes, NY), Senza fine né forma (Duetart Gallery) e The Soft Revolution al Museo del Tessile di Busto Arsizio. La sua presenza si distingue anche in spazi di ricerca e sperimentazione come la Galleria Alessio Moitre a Torino, dove ha preso parte a diverse collettive legate al progetto Exhibi.To. Il suo lavoro è stato riconosciuto con premi come l’A Collection Prize ad Art Verona 2021, consolidando un percorso ed una parabola artistica coerente e rigoroso di cui mi ha raccontato in questa intervista.


Qual è il percorso che ti ha condotto al ricamo come tecnica artistica?
Il ricamo si è aggiunto nel mio lavoro nel momento in cui ho accettato, nella mia ricerca e nella mia vita, la necessità dell’oblio. Avevo bisogno di trovare la maniera per accogliere una tecnica che fosse incisiva ma delicata allo stesso tempo e il ricamo mi ha restituito quella forza e sensualità che cercavo. Inizialmente utilizzavo solo grafite e fusaggine, quindi sostanzialmente materiali polverosi, la cui essenza di fatto ha sempre raccontato l’instabilità terrena. Tutti i materiali che utilizzo nelle mie opere fanno riferimento alla fragilità, alla delicatezza, al temporaneo. Trovo che manifestare questi aspetti sia molto poetico. Il ricamo fra tutti è forse quello che rappresenta più aspetti insieme, anche contrastanti. Il filo di per sé è fragile ma l’insistenza con cui lo si utilizza consente di tenere insieme, resistere nel tempo. Il ricamo mi riporta alla cucitura ed è stupefacente per me pensare come un gesto così lento e inesorabile possa consentire di creare opere anche incredibili, come la vela di una nave.

Qual è per te il legame tra ricamo e parole?
La parola è vita, si anima nella mente generando immagini. La parola è suono, forma, colore. Può essere estremamente astratta e tornare ad una forma primordiale come segno o trasformarsi in disegno. Può diventare musicale, scandire un ritmo. Il ricamo mi ha permesso di introdurre quelle che definisco “parole del sogno” ovvero un linguaggio altro che perde il peso del significato, ma acquista la bellezza dell’interpretazione, come quando si ascolta o si legge una lingua sconosciuta, non concentrandoci sul significato, ne apprezziamo o comprendiamo altri aspetti meno codificati.
Come nascono e si sviluppano le tue opere?
Le mie opere, che contengano parole e ricami o solo parole o solo ricami, nascono a seguito di una ricerca e studio della Storia dell’Arte. Amo profondamente questa modalità che mi consente di continuare ad indagare, tenere a mente le Opere del passato o omaggiare artisti/e che hanno segnato la mia ricerca. Mi capita sovente di realizzarne diverse e in modalità/tecniche differenti che fanno riferimento ad una medesima tavola o quadro. Le possibilità interpretative così come il rimando che la Storia dell’Arte ci regala sono, a mio parere, infinite. Potremmo stare probabilmente una vita intera a studiare una sola Opera e ricavarci innumerevoli possibilità e significati.

Come si è evoluta la tua ricerca nel corso del tempo?
Ho iniziato con la generazione di una sorta di archivio di memoria. Inizialmente il mio intento è stato quello di trovare la maniera per tenere a mente più informazioni possibili inerenti la Storia dell’Arte, come se questa fosse un testamento “familiare” (di fatto lo è se lo intendiamo come un insieme di elementi che rappresentano la nostra cultura). Questa “ossessione” per il ricordo mi ha portata ad usare la parola come un contenitore nel contenitore. La parola per scrivere, memorizzare attraverso un processo lento e ripetitivo, ma anche come strumento estremamente versatile per sentirsi parte di una cultura, di un luogo. Ad un certo momento la mia necessità di ricordare tutto ha fatto spazio alla consapevolezza che non siamo fatti per tenere tutto a mente (controllare) e che il dimenticare (lasciar andare) ha una funzione necessaria, terribile per certi versi, ma anche salvifica. Nel momento in cui ho accettato questo aspetto è subentrato l’oblio nella mia ricerca, il ricamo, l’alternanza di parola/significato a parola/segno e solo segno.

Come definiresti la tua ricerca e la tua pratica artistica oggi?
La definirei come un qualcosa che richiede tempo sia per realizzarla che per fruirla. Mi sono resa conto negli anni, nelle mostre e attraverso le persone conosciute, nei vari momenti espositivi, o grazie ai miei collezionisti, che una cosa ci “lega” ovvero la volontà e la necessità di ritagliarsi un momento per sé. Le mie opere richiedono un momento di intimità dettato da tanti fattori, il soffermarsi a leggere, l’entrare nel racconto, comprenderne la chiave di lettura, lasciarla risuonare. Il mio lavoro non “urla”, sia per concetto che per tecnica. Questa immersione e avvicinamento richiede uno sforzo, sforzo che l’oggi sta annullando con i tempi dettati dal flusso dei contenuti che ci vengono propinati, tempi che si sono ridotti a pochi secondi e alla soglia di attenzione che ormai è vicino al nulla. Io adoro la pace che certi luoghi/opere emanano e richiedono, per me il silenzio, ad esempio, è una forma di rispetto, lo trovo bellissimo. Mi piacerebbe molto che tutto il mio lavoro emanasse questo pensiero.
Cosa significa essere un’artista per te?
Per me essere un’artista è l’unica via per restare al mondo, ma per contro è anche un atto di resistenza e di coraggio, almeno in Italia.
La nostra è l’era tecnologica e la tecnologia è anche il metro della velocità del nostro tempo. Come si coniuga un medium lento e antico come il ricamo con la contemporaneità?
Non si coniuga, per me è lo specchio di una modalità che è passata, che appartiene al ‘900 che è il secolo in cui sono nata e a cui naturalmente sono legata. Ma per questo non significa che sia vecchio, semplicemente risponde ad altri paradigmi. E questo lo rende affascinante e poetico. Per me è un modello da non dimenticare perché segue un ritmo che per me è più affine. Il mio lavoro fa anche uso della tecnologia, vivo in questo tempo e dunque usufruisco dei sistemi che velocizzano alcuni processi, fruizioni, spostamenti, il quotidiano, ma ho notato in più occasioni che troppa tecnologia e “super velocità” mi alienano e mi spersonalizzano.

Mi racconti il tuo recente progetto espositivo a Casa Gramsci – “Non appartengo alla terra” – costituito da un corpus di lavori differenti?
La mostra a Casa Gramsci curata da Lunetta11 e Np ArtLab è stata pensata per dialogare con uno spazio che di per sé è già un’Opera d’Arte, pertanto non semplice. Bisognava entrare in punta di piedi dialogando senza imporre. La mostra fa riferimento ad un viaggio che ho fatto 11 anni fa negli Stati Uniti. In quell’occasione, al Metropolitan Museum of Art, mi sono innamorata di una tavoletta di pochi centimetri, ma immensa. Una tavoletta che parla appunto di un viaggio: in questo viaggio, i personaggi, che quasi non si distinguono, si fondono tra loro in un ritmo perfetto. Questa piccola tavoletta è una meravigliosa opera del Sassetta: Il viaggio dei magi. A Casa Gramsci Il viaggio dei magi è diventato una matrice in grado di aprirsi a svariate letture e riletture, in funzione delle effettive differenti simbologie che si porta dietro. I Magi diventano “maghi in grado di leggere i segni e le stelle”, creano linguaggi e alfabeti che si formano su differenti approcci, che siano di segno, forma, colore, parola o significato. Il corpus di opere era quindi formato da tre “organismi”. Una grande tela appesa su cui erano cucite cromie e forme in lana, in cui Il viaggio dei magi è diventato memoria astratta, di forma e colore. Saper leggere forma e colore.
A seguire, una piccola tela la “Lettura e obnubilamento de il viaggio dei magi”, nella stessa misura dell’originale; la parola si animava prendendo vita, forma e colore; intimamente, assumevano significati differenti, restituendo una nuova visione e interpretazione.
In ultimo tre mattoni antichi dipinti a tempera evocano, attraverso frasi poetiche, alcuni colori presenti nel dipinto del Sassetta, lasciando così libertà interpretativa e percettiva.
A quale opera stai lavorando?
Sto lavorando ad una mostra che si terrà a Belgrado a fine anno, in cui diverse mie opere dialogheranno con quelle di altre artiste.
A cosa serve l’Arte, Serena?
Questa è una domanda molto complessa perché può avere molteplici risposte a seconda del contesto a cui si riferisce e a cosa si intenda per “Arte”. Lea Vergine diceva “l’arte non è necessaria, è il superfluo. Quello che ci serve per essere felici o perlomeno meno infelici è il superfluo”.
Io posso dirti che cosa serve a me. Credo che ognuno senta di avere un senso a questo mondo facendo determinate cose, per me l’Arte è il mio senso di stare al mondo.

