Artiste e artisti

IL FILO CONTINUO, DAL TESSERE AL RICAMARE: IN CONVERSAZIONE CON GRAZIA INSERILLO

| di Barbara Pavan |

Qualche anno fa ho avuto l’occasione di conversare con l’artista palermitana Grazia Inserillo (classe 1988), in un momento cruciale della sua ricerca. Ne era emerso un ritratto profondo e stratificato, in cui il filo – inteso non solo come materiale ma come simbolo denso – si faceva strumento di indagine antropologica e autobiografica, gesto di cura e atto politico.

caelestis 2022 lana e lamè su tulle, legno diametro 200 cm

Inserillo affondava la sua pratica nell’eredità dei mestieri tradizionali della sua famiglia, riscoprendo e rivitalizzando l’arte del tessere, dell’intrecciare. Da questa azione antica, che diventa gesto contemporaneo, era nata una ricerca capace di approdare in progetti espositivi internazionali e di portare le sue opere in collezioni pubbliche e private. Al centro della nostra conversazione, il filo non era mai solo fibra. Era medium narrativo e affettivo: «Ognuno di noi ha delle matasse da dipanare», diceva, «per me è fondamentale sciogliere i nodi per lasciare posto al futuro». Il tessere diventava allora un doppio movimento: cura e resistenza, gesto di salvezza e pratica di memoria. Un rito che – come lei stessa affermava – assumeva un valore apotropaico e riparatore.

Cieli di perla n2 2022 punzonatura su carta rosaspina 70x50cm
crosta lattea_2024_lana e cotone su tela 40×70 cm. Il primo sole 2024 cotone e lana su tela 70×60 cm
Diade 2020 trina, cotone e lana su tulle e stoffa, legno 62x75cm. Interludio 2018 trina, cotone su tulle e lino, legno 40x55cm

Non per caso la sua pratica si radicava profondamente nella propria biografia, in quel femminile “ereditato” e trasformato. L’essere donna non era infatti semplice condizione, ma nodo fondante dell’intera narrazione visiva e teorica. «Sono un’artista a cui è capitato nascere donna», affermava citando Louise Nevelson, e in quella “casualità” si rifletteva un’intera genealogia di lotte, soprusi, devozione, e riscatto. Anche la sua provenienza da Isola delle Femmine – nome solo apparentemente idilliaco – rivelava strati più profondi e meno concilianti: non un elogio, ma una storia di prigionia e silenzio forzato. È proprio da quel silenzio che Inserillo traeva la forza per “presentificare” l’invisibile. Nel suo lavoro, il centrino – emblema di un femminile domestico e marginalizzato – si trasformava in monumentale installazione sospesa. Da dettaglio ornamentale a struttura scultorea, da oggetto d’uso a vessillo politico. Il gesto della tessitura non è mai neutro: è atto di riparazione e denuncia, di sopravvivenza e di affermazione. Ogni nodo è una dichiarazione, ogni punto un gesto di rivolta silenziosa.

Fiat volùntas mea 2024 lana su nylon diametro 130 cm

Tra i materiali che prediligeva la lana occupava un posto centrale: non solo per le sue qualità tecniche, ma per ciò che simbolicamente evocava. La lana protegge, avvolge, trattiene il calore. È materia “materna” per eccellenza, e per questo Inserillo la associava alla funzione archetipica della donna/madre che si prende cura, che protegge il focolare, che accoglie. L’opera si faceva così luogo accogliente, esperienza fisica e tattile che chiama in causa lo spettatore in modo intimo e diretto. Il rosso, altro elemento ricorrente nelle sue opere, è colore del sacrificio, del sangue, del parto e della vita che rinasce. È un colore-stigma, profondamente legato all’esperienza femminile, che nel suo lavoro diventava anche colore di salvezza. «Perdi qualcosa per acquisirne un’altra» sosteneva, e in questo ciclo di perdita e rigenerazione si manifestava l’essenza della sua poetica.

organismi n2 2024 lana e cotone su carta ingiallita 42×31 cm

Anche la forma circolare – presente in molte delle sue installazioni – era simbolo di un femminile primigenio, di un tempo ciclico che tutto contiene e tutto rigenera. Il cerchio è l’utero, il telaio, la storia che ritorna e si riannoda senza fine. È immagine della memoria e, insieme, del futuro. In un contesto artistico in cui spesso si privilegiano linguaggi digitali e multimediali, l’opera tessile di Grazia Inserillo riportava il corpo e la materia al centro dell’esperienza estetica. Lavorare ad uncinetto diventava così un atto di resistenza contro l’effimero, un ritorno al “fare con le mani” che aveva il sapore dell’origine e della necessità.

Linum n2 2024 lana e cotone su tela 60×30 cm Linum n1 2024 cotone e lana su tela di lino e canapa 108×78 cm

A distanza di anni da quella conversazione, ho ritenuto necessario tornare a dialogare con Grazia Inserillo: capire come si è evoluto il suo percorso, come sono cambiati – se lo sono – i nodi da sciogliere e quelli da stringere. Un nuovo incontro, dunque, per riprendere il filo.

reviviscenze 2025 lana e gesso patinato 20x20x10 cm e 30x27x16 cm

Negli ultimi anni, la tua ricerca ha attraversato un’evoluzione significativa. Quali sono, a tuo avviso, le direttrici principali di questo cambiamento e quali fattori – biografici, concettuali o di contesto – hanno maggiormente influenzato la traiettoria del tuo lavoro?

Sintetizzo questi cinque anni (dopo il nostro incontro), in due importanti fasi di lavoro in cui ho studiato la materia, prima “quantica” e poi organica, in relazione al tatto, alla palpabilità e alle qualità tattili suscitate, come senso imprescindibile alla rappresentazione.

Gioiello 2018 trina, cotone e lana su tulle e stoffe, legno 45×50 cm dettaglio
reviviscenze 2024 filo di seta su papiro 21×30 cm

Nella prima fase, durata fino al 2023, mi sono dedicata alla materia sospesa, una massa silenziosa, in sospensione, occupante uno spazio, e alle relazioni (distanze e forze attrattive) che intercorrono tra più elementi, approfondendo il senso del toccare, partendo proprio dalla sua negazione, cioè dall’impalpabilità, attingendo così all’immaginario celeste, galattico, nebuloso, interstellare: ho ricamato l’inafferrabile, sublimandolo attraverso l’uso di superfici eteree e rarefatte come il tulle, che andavo a riempire con grumose galassie materiche composte da nodi policromi, oppure creando vortici scintillanti e metallici, appuntando direttamente gli spilli da sarta sul tulle, dove lo strumento stesso si fa traiettoria, senza l’uso del filo. E ancora: ho cominciato a bucare con l’ago la spiazzante superficie della carta bianca (o leggermente avorio), come simbolo dell’ignoto, dello sconosciuto e dello sconfinato, creando cumuli di vuoto, nuvole d’ombre, anch’esse vorticose e prive di filo.

Negli ultimi due anni invece, sono passata dalla materia quantica (percepita e percepibile, alta, distante, lontana) alla materia organica – già presente in maniera “fredda” sotto forma di minerali che costituiscono i corpi celesti – mettendo le mani sul corpo materico, brulicante, fangoso, riappropriandomi del tatto e del colore. Infatti ho anche realizzato degli elementi a tuttotondo cristallizzando la fibra nel gesso, e continuando anche qui il mio dialogo con la carta, stavolta ricamata di organismi colorati. Così posso riassumere questi cinque anni con una linea verticale, dove io ho osservato dal centro della linea, spingendomi dapprima in alto, nel cielo delle possibilità sopra di me, e poi in basso nel possibile sotto di me, come uno zoom, esplorando il suolo e il sottosuolo e affondando le mani nell’humus primordiale.

star trail 2022 lana, spilli su tulle diametro 76cm

Vita celeste e vita terrestre: ho percorso la verticale della distanza e della vicinanza, seguendo un’unica costante, ossia la ricerca di accostamenti materici, creando ossimori visivi tessili, annettendo fra quelli usuali, anche materiali non legati strettamente al tessile.

Biograficamente mi accorgo che, quando ho iniziato a ricamare come artista (nel 2014), l’ho fatto per stringere legami con la mancanza; dopodiché ho ricamato l’assenza, nel tentativo di colmare distanze siderali, di raggiungere l’irraggiungibile; infine ho affondato le mani sulla terra, senza sprofondare troppo nelle radici della memoria, mantenendomi sulla superficie del presente, grattando leggermente la crosta per piantare semi che posso accompagnare nella crescita. Ritengo emblematiche le personali in ordine di tempo e di percorso: “Il peso della coperta” nel 2020, “Fino alle stelle” del 2023 e “Un seme profondo” nel 2025.

sempreverdi n2 2024 lana e cotone su lana merino infeltrita a mano 20×25 cm

Nel tuo recente progetto espositivo Un seme profondo il ricamo emerge come medium centrale. Potresti raccontarci la genesi di questa mostra e approfondire le dinamiche formali e simboliche che sottendono le opere presentate?

Il ricamo mi ha permesso di seminare letteralmente i miei punti/nodi, disperdendo semi sulla superficie delle stoffe di lino, canapa, cotone, del papiro, del feltro (ottenuto dalla lana merino infeltrita da me a mano) e infine su carte ingiallite. Mi sono misurata con la tintura di tessuti e filati attraverso le piante tintorie, sperimentando la tecnica giapponese dello Shibori; ho impastato sculture in gesso e fibra, e rispolverato le tecniche incisorie dell’acquatinta, acquaforte, ceramolle e puntasecca (apprese ai tempi dell’accademia) e seminato anche sulle stampe.

Per me è stata un’archeologia: partendo proprio dal fossile come immagine e come simbolo, sono arrivata al concetto di reviviscenza, ossia di un essere che torna alla vita dopo un momentaneo periodo di morte, quindi più che fossilizzare e cristallizzare le forme di vita che andavo creando, il mio intento era proprio quello di “s-fossilizzarle”, scrollando di dosso la pietra che le ha tenute immobili. Quindi l’immagine che è venuta a crearsi è quella di tanti organismi che respirano, riprendono colore e vitalità (immaginavo sempre i “Prigioni” di Michelangelo che si liberano dalla pietra).

Così ho voluto restituire la vita a diversi organismi vegetali, “proto-botanici” come li definisco, e microrganismi animali forse oggi estinti o ancora imprigionati nelle rocce, fossili appunto.

seme profondo 2025 ceramolle e acquatinta su carta rosaspina 20×30 cm

L’atmosfera è quella del brodo primordiale, dove ancora non si distinguono bene le forme di vita sub acquatiche e terrestri: hanno ciglia, steli, gambi, foglie, gemme, corolle, semi che sbocciano in fiori e in colori della terra (i verdi, le ocre gialle e rosse, i bruni, l’indaco…), e in questi primordi ho inserito due elementi volutamente simbolici, dunque differenti dalle forme di vita sulla terra, due “genitori”: Il primo sole, con tanto di vento/alito solare, e Crosta lattea, madre terra in formazione anche lei, da cui sgorga il latte della vita.

Infine, in sintonia col tema della reviviscenza, ho creato la serie Linum, in cui restituisco alla fibra di lino, l’immagine microscopica della pianta che fu, prima di diventare una tela sbiadita, ricamando sulla sua superficie una porzione della pianta, fedelmente colorata, vista al microscopio.

L’introduzione dell’ago e del filo nella tua pratica segna una svolta, anche in relazione alla dimensione monumentale che caratterizzava alcune tue precedenti installazioni tessili. In che modo questa scelta tecnica si accompagna a un ripensamento concettuale del tuo linguaggio?

L’uso dell’ago mi permette di essere più precisa, chirurgica, oculata nella scelta del punto/nodo, del colore, della forma, della composizione, dei volumi, ecc.

Di conseguenza lo spazio da occupare si riduce, perché devo occuparmi di una porzione per volta: torno, nella maggior parte degli ultimi lavori, a sedermi al microscopio e a investigare meticolosamente particelle di materia organica. Di fatti qui abbandono del tutto il cerchio, aprendo delle finestre, rettangoli di visione che mostrano una parte del tutto, mentre nel cerchio viene sempre a crearsi una visione globale del soggetto rappresentato.

È incredibile di come l’ago mi permetta di misurarmi con l’immensità e le grandi distanze come una cosmonauta, e allo stesso modo investigare il microcosmo brulicante e ancestrale. Pertanto, non la definisco una svolta ma un continuare ed accrescere la mia ricerca tessile dove, a seconda del progetto, formulo quel determinato punto, nodo, forma, dimensione, colore, volume, trasparenze, strumenti e così via, per tradurre al meglio l’immagine, l’atmosfera, il sentimento che voglio comunicare.

Continuerò a realizzare grandi arazzi circolari all’uncinetto, anche come vessillo di resistenza, ad aprire finestre microscopiche, a punzonare la carta, a domandarmi del cielo e della terra, dell’umanità che non trova la strada di casa, a plasmare il tessile, assecondando il mio sentire.

In un contesto artistico sempre più permeato da tecnologie immersive, intelligenza artificiale e processi automatizzati, come si posiziona la tua pratica, fondata invece su un fare materico, lento e profondamente umano? La rapida evoluzione del panorama tecnologico ha modificato – o messo in discussione – il tuo approccio?

Una persona che osserva un’opera d’arte è già totalmente immersa in una tecnologia, in un artificio, in un’intelligenza artefatta, o meglio, in un’intelligenza “fatta arte” – che si fa arte -. Dalla preistoria ad oggi si sono sviluppate nuove “téchne” per esprimere al meglio ciò che si vuole comunicare, perciò l’uso della tecnologia come medium espressivo è parte dello sviluppo dell’arte stessa. Tuttavia, quando la tecnologia presente in alcune opere sovrasta il contenuto e il linguaggio artistico si trasforma in linguaggio meramente tecnologico, si rende l’arte incapace di comunicare e di veicolare un’emozione, mettendo distanza tra l’opera e lo spettatore, accorciando così i tempi di fruizione e di immersione, in poche parole si “raffredda” la relazione. Non è facile oggi mantenere questo equilibrio.

somewhere n3 2023 lana su tulle, lamè diametro 66 cm

Apprezzo molto le ricerche dello studio artistico “Fuse*” che utilizzano tutte le tecnologie emergenti, compresa l’AI, in collaborazione con varie università del mondo, creando delle installazioni immersive, non per la dimensione degli schermi ma per il contenuto emotivo e sensoriale delle loro immagini in movimento.

Personalmente, l’automatismo e la velocità non mi permettono di restare sulle cose, di esperire il tempo del fare e il tempo del godere della forma creata o che si sta creando. Mi allontanano, mi alienano, mi confondono.

Io continuo a restare “analogica” perché, semplicemente, dall’errore che faccio nel cucire un punto, nasce cosa nuova. Ancora meglio, quando non mi piace cosa sto creando e allora sovrascrivo sull’errore, inglobandolo in una nuova bellezza che mi dà spessore, in tutti i sensi. Altre volte scucio, taglio e ridimensiono: il filo spezzato o i brandelli di stoffa sono importanti perché sono la prova della trasformazione che sto attuando e per la quale sto impiegando del tempo. Il tempo necessario affinché l’idea prenda forma.

Continuo a desiderare il ripensamento in essere, l’ascolto dell’emozione che si traduce in forma materica, continuo a desiderare la lentezza e la scoperta, a legarmi al rito, al sacro, al miracolo della genesi della forma per mezzo delle mie mani.

origine del mondo 2014 lana su nylon diametro 200cm

Non voglio interferenze tra ciò che sento e ciò che tocco: ho necessità di trasferire “immediatamente” tutto, nonostante la “téchne” di cui mi servo sia una pratica lenta e ponderata punto dopo punto che, però, mi permette una traduzione del pensiero in forma concreta a me più aderente.

Quali sono le urgenze etiche, politiche o esistenziali che oggi nutrono la tua ricerca? Quali temi ti sembrano più necessari da affrontare attraverso il linguaggio dell’arte?

Costruire. Secondo me l’arte non deve smettere di veicolare questo messaggio potentissimo, con tutti i mezzi possibili, immaginabili e dunque realizzabili.

La violenza, qualunque forma essa abbia, subdola o eclatante che sia, oggi ha vinto.

È sempre presente, è parte integrante delle nostre giornate, si è seduta comoda nella nostra quotidianità, le abbiamo fatto spazio: dai conflitti in corso in tutto il pianeta ai conflitti relazionali con gli altri (e prima ancora con noi stessi), sempre più in crescita.

Siamo spezzati, frammentati, ridotti a macerie… per questo la parola che sento molto in questi anni è proprio “costruire”.

L’arte ha sempre denunciato la violenza, ma temo sia caduta nella trappola della normalizzazione: il silenzio che calava di fronte a un’opera d’arte di forte denuncia, dove sgomento, riflessione e commozione investivano il pubblico, adesso è sostituito dal fotogramma catturato dal cellulare e velocemente postato sui social, privando l’opera e il suo racconto del rispetto, del silenzio che creava e del potere dell’arte di ammonire il genere umano, suscitando sentimenti di compassione, empatia e vicinanza.

organismi cotone e shibori su tela 20×20 cm

Forse l’immagine, così come la parola, non basta più… mi convinco sempre più che l’arte esperienziale sia uno strumento ancora più valido, oggi più che mai, e come artista vorrei sempre più dedicarmi all’arte detta “relazionale” in cui l’interazione e l’inclusione ancora più attiva del pubblico, secondo me può fare la differenza.

Sin dai miei primi workshop aperti a tutta la comunità (indistintamente dal sesso, dall’età e dal saper cucire) pensati per denunciare la violenza, sulle donne in particolare, ho sempre ragionato sul tema del costruire/ricostruire da quel determinato punto di dolore: le cicatrici sono una nuova pelle risanata che custodisce il dolore vissuto, su quel dolore si è costruito un nuovo scudo e le cicatrici servono a ricordarci che quel dolore non deve succedere più. Il filo si fa metafora più che mai del legame, di comunità e di superamento della violenza, insieme. Basta veramente poco per costruire, anche un filo.

Grazia Inserillo è nata in Sicilia nel 1988, a Palermo, dove si forma come scultrice presso l’Accademia di Belle Arti. Attualmente vive e lavora a Padova, dove insegna discipline plastico-scultoree e si dedica alla ricerca nell’ambito dell’arte contemporanea, con un particolare focus sulle installazioni tessili. Originaria di Isola delle Femmine, ha vissuto immersa tra le reti da pesca e i ricami tramandati dalle donne della sua famiglia: un patrimonio materiale e simbolico che ha segnato profondamente il suo immaginario. Nodi e intrecci costituiscono la radice della sua esistenza, e attraverso il filo l’artista esplora i concetti antropologici dell’abitare e dell’esistere. Ha partecipato a numerose mostre collettive in Italia, Germania, Francia e Stati Uniti, esponendo in città quali Palermo, Catania, Scicli, Milano, Torino, Genova, Perugia, Vicenza, Tulle, Düsseldorf e New York. Le sue mostre personali si sono tenute a Palermo nel 2016, Trapani nel 2017, Bagheria e New York nel 2020, Scicli e Vicenza nel 2023, Milano nel 2025.

Inserillo ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Premio FAM – Giovani Artisti Siciliani nel 2016 e il Premio BID – Biennale Internazionale Donna nel 2017. Le sue opere tessili sono presenti in collezioni permanenti di importanti istituzioni, quali il Museo d’Arte Contemporanea Palazzo Riso di Palermo, il Museo di Arte Contemporanea San Rocco di Trapani, l’Ecomuseo di Salemi e l’Università Politecnica di Valencia. Una sua opera, realizzata con la partecipazione della comunità, è ospitata in modo permanente presso il centro antiviolenza della città di Torino.

Il suo lavoro è stato pubblicato nei volumi Peppi sperso per il mondo di Amelia Crisantino, con testo critico di Giusy Affronti; Trame d’artista di Marina Giordano; Almanacco delle Artiste Siciliane – Volume 2 di Emilia Valenza, con testo critico di Marina Giordano. Su di lei hanno scritto anche Giusi Diana, Giulia Giglio, Gianna Panicola, Barbara Pavan, Carla Ricevuto, Antonio Sarnari, Angela Stefani ed Emilia Valenza.